La frontiera e i briganti

Categoria: storia
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Santa Francesca rappresentava l’ultimo lembo di terra dello Stato Pontificio, prima del confine con il Regno delle Due Sicilie. A testimonianza rimangono colonnette e cippi, che rappresentano i termini di confine fra i due Stati preunitari. Lungo le alture e i valichi del confine, erano dislocati avamposti papalini, che dipendevano da una gendarmeria, sede anche della dogana, sita a S. Francesca. Essi ospitavano militi di confine con compiti di controllo militare e all’occorrenza controllo doganale sulle merci. 

Al passaggio delle persone con le loro mercanzie, essi riscuotevano un tributo e rilasciavano un lasciapassare scritto. Gli stessi avamposti furono utilizzati anche come gabbiotti sanitari all’interno di un Cordone Sanitario Terrestre risalente al 1835-37, attuato in seguito ad una epidemia di colera, insorta nel vicino Regno Borbonico.

 Il cordone consisteva in strutture in muratura chiamati “Gabbiotti Sanitari”, capaci di ospitare 4/5 persone, spesso posti nelle vicinanze di strutture militari o anche coincidenti con le stesse; come si può desumere dai ruderi che rimangono. Il compito degli addetti ai controlli era quello di bloccare le persone che provenivano dal Regno. Esiste una dettagliata pianta del confine presente all’archivio di stato di Frosinone, dove i Gabbiotti sono elencati numericamente e descrive i luoghi dove erano collocati.

Per quanto riguarda il tratto di confine del territorio limitrofo aS. Francesca si parla dei siti di Fontana Fratta, Fontana Fusa, Forca Fura, Santa Francesca, Prato di Campoli, S. Maria Amaseno, Ara Cristini e Trisulti, che verrannodettagliatamente descritti nel capitolo successivo.

La miseria cronica in cui versava il ceto basso per i continui soprusi che ricevevano dai proprietari terrieri, generavano malcontento e spesso spingeva le persone alla macchia. Luogo fecondo per gruppi di sbandati, specializzati in ruberie per sopravvivere. Di questi fatti, i documenti storici ne danno notizia già dal 1300 Marcello Stirpe Verulana Civitas pag. 201”. Una notevole crescita del fenomeno del brigantaggio si ebbe nel 1810, con il rifiuto al servizio militare obbligatorio imposto dalle truppe napoleoniche. Numerosi sono i documenti archivistici che parlano delle azioni di questi uomini, considerati fuorilegge, e numerose furono le azioni intraprese dai Papi per reprimere il fenomeno. Nel volume “Prospetto Istorico di Veroli” a pagina 232, Francesco Melloni, , descrive le azioni malavitose dell’ottobre del 1817, intraprese del famigerato Pietro il Calabrese, rifugiato nel territorio montana di S.Francesca.

  Oltre alla presenza di un confine facilmente valicabile che consentiva di passare dall’una all’altra parte secondo le necessità, ciò che fece di questa zona l’area preferita come rifugio per i briganti, fu anche la vastità e la durezza del territorio montano degli Ernici e la vicinanza dei monasteri.

Al brigantaggio originato dalla miseria cronica, in cui versava il ceto basso, nonché al rifiuto al sevizio militare obbligatorio imposto dalle truppe napoleoniche nel 1810, si aggiunse il brigantaggio sviluppatosi tra il 1860 e 1862. Quest’ultimo fu definito sia “antinazionalista” perchè estremo tentativo per impedire l’unificazione d’Italia da parte dei Savoia e “legittimista” perchè favorito dagli esuli borbonici rifugiatesi a Roma e dallo stesso Stato Pontificio nella persona del Papa Pio IX.

A guidare la reazione antinazionalista filoborbonica fu chiamato Luigi Alonzi, un guardaboschi della Selva di Sora, nato nel 1825. Chiamato “Memmo” per gli intimi amici e “Chiavone” per la gente della contrada per le sue notevoli doti amatorie. A Scifelli, ancora oggi è visibile un rudere detto “Stiro Chiavone”, in cui soggiornò durante la campagna reazionaria e come narra la memoria popolare( Fiorini Maria nata a Scifelli, Veroli, il 25 aprile 1912 nubile e coabitante con la sorella Cristina coniugata con Ascenzi Giacomo ) con i suoi fedelissimi, allietasse le giornate in compagnia di donne del posto, che le tenne forzatamente.

Chiavone era un uomo scaltro e in tempi duri, prima di indossare la divisa da guardaboschi e quella da generale, fu un audace contrabbandiere della Selva e delle località tra Fontana Fratta, Scifelli e S. Francesca. Con la lotta personale contro la Guardia Nazionale di stanza a Sora, conquistò la fiducia del Governo Borbonico. Chiavone apparteneva al ceto basso e dentro di se albergava un grande desiderio di riscatto, così durante la sua breve vita si era specializzato nell’arte di arrangiarsi in ogni situazione e a carpire ogni possibilità di cambiamento che gli si presentava.

Pertanto con il coinvolgimento alla reazione filoborbonica cercava gloria e onori per una vita migliore, ma le sue origini non passarono inosservate e fu così che divenne l’agnello sacrificale per sigillare gli accordi sottoscritti tra le diplomazie piemontese, pontificia e borbonica.

Egli non fu solo un brigante, ma passò alla storia come reazionario per essere stato scelto a guidare la reazione antinazionalista contro il re d’Italia.

La sua attività fu sorretta e finanziata sia dal re Francesco II di Borbone, che dal papa Pio IX, come ci è dato sapere dal diario dello Zimmerman, luogotenente dell’Alonzi. In questi anni aveva posto quartier generale a Case Cocchi, sopra Monte Pedicino detto all’epoca Monte Favone, dove comandava un esercito di 700 uomini formato sia da legittimisti che da volontari, dislocati tra Fontana Fratta e S. Francesca, e dove risiedeva la sua compagna Olimpia Cocco.

  Da quanto risulta dai registri della parrocchia di S.Francesca, Olimpia è nata nel 1825 da Domenico Lisi e Andreana Sanità, con il matrimonio con Giacinto Cocco assunse il suo cognome. Quando conobbe Chiavone nel febbraio del 1861 era vedova con un figlio di nome Giuseppe, a cui Chiavone voleva bene considerandolo suo.

 Olimpia fu per Chiavone sì un’amante, ma soprattutto una vera amica e consigliera. E tale rimase anche quando, costretto a spostare i suoi uomini alla Fossa dell’Ortica, sita a nord-est del monte Pedicino a quota 1200, scortato da una ventina di fedelissimi scendeva da lei, approfittando del buio e rischiando più volte di essere catturato. Il suo coinvolgimento nella lotta durò fino al 28 giugno 1862, giorno della sua morte per fucilazione ordinata dal generale Tristany, inviato da Francesco II. Il suo corpo fu bruciato. Nella boscaglia di Valle dell’Inferno vicino Trisulti.(Tratto da “Il brigante Chiavone” di M.Ferri – D.Celestino)

Dopo la morte di Chiavone il brigantaggio legittimista cessò, e i suoi uomini si dispersero in tante piccole bande, che furono braccate dai piemontesi fino al totale annientamento.

Ancora oggi a Santa Francesca si ricorda del brigante Cedrone che a protezione del grosso della banda di Chiavone situata alla Fossa dell’Ortica, si accampava a seconda della situazione ai Pozzi dei Piani, oppure a Pozzo Quagliolo e all’Acquaro del Nibbio, da cui controllava tutto il fianco pedemontano del monte Pedicino sino alla vallata di S. Francesca.

Dai contatti intercorsi durante ricerche condotte per il presente lavoro è emerso che suo parente Antonio Cedrone di S. Donato conserva il fucile di Cedrone ad avancarica con innesco a pietra focaia.

Domenico Foco, dopo la morte di Chiavone, prese le sue redini, capeggiando una banda di cento uomini, che fu avvistata dai militi del distaccamento dell’Amaseno il 18 marzo del 1866.

Francesco Francescone “brigante di Casamari” era nato a Sora nel 1841 da Antonio, detto “Polentone” e da donna Concetta, donna bella e di facili costumi, la quale lo abbandonò alle cure della balia Teresa Lombardo. In giovinezza, aveva militato dapprima nell’esercito borbonico, quindi si era arruolato con la banda di Chiavone, per divenire, alla morte di questi, squadrigliere papalino. Temperamento originale, battagliero e amante dell’avventura, ma forse anche spinto da necessità di sopravvivenza, partecipò a numerose imprese militari, tra cui la battaglia di Calatafini e la difesa di Roma nel settembre del 1870, come soldato del papa. Arrestato nel 1873 per aver ferito con un pugnale una guardia nazionale a Sora fu condannato a dieci anni di reclusione nel carcere di Pianosa. Ne uscì nel 1884. Finì i suoi giorni facendo il guardiano dei monaci di Calamari nella loro proprietà dell’Antera. Sposò Oliva Martellacci da cui ebbe cinque figli, tre maschi e due femmine, il primo di nome Pio. (Profilo tratto dalla rivista cistercense anno I – numero 3) di Benedetto Fornari. Scelse per residenza una casa a Scifelli, tutt’oggi esistente, con le iniziali F.F. impresse sull’architrave dell’ingresso e di proprietà della famiglia Ascenzi, nella persona di Giacomo Ascenzi che l’acquistò da Alberto Martellacci figlio di Giacinto.

Vincenzo Renzi detto “Grassone”, citato in una lettera anonima che lo denuncia per attività di cospirazione contro il Governo italiano, datata 11 agosto 1871. La lettera segnala l’esistenza di un deposito di armi nella casa del Renzi, costituto da: doppiette, revolver, stili e coltelli di ogni tipo. Inoltre è sospettato di essere a capo di una congiura contro il Governo italiano. Tratto da “Giustizia e Criminalità a Veroli tra 800 e 900” a cura di Emanuela Gabrielli e Monica Grossi.

Verrelli Angelo Maria domiciliato a Case Verrelli, è ricordato quale capo banda specializzata in sequestri di persona. Le fonti storiche fanno riferimento al sequestro di Egidio Vitale imprigionato sul monte Tranquillo a Sora, a quello di Tambucci a Piperno, a quello perpetrato a carico di persona anomina residente a Roccasecca, sino al più noto commesso nei confronti del monsignor Theodoli Augusto a Trisulti, al quale sottrasse l’anello stappandolo dal dito. Altri documenti riferiti al periodo che va dal 9 febbraio 1874 al 13 ottobre 1874, fanno riferimento sia a somme disposte come taglia dalla Sottoprefettura di Frosinone, sia delle attività di polizia, perquisizioni e interrogatori, per procedere all’arresto del Verrelli e recuperare gli scudi dei riscatti. Tratto da “Giustizia e Criminalità a Veroli tra 800 e 900” a cura di Emanuela Gabrielli e Monica Grossi.

Ancora oggi il nome di molte località e alcuni soprannomi di persone ci ricorda di uomini che furono nominati briganti come: i Carinci, i Cerelli, i Baglione, i Cocco, i Frasca, i Renzi, i Trulli, i Marocco, i Pagliaroli, i Paniccia, i Lamesi, gli Aversa, i Baglioni, e i Quattrociocchi.

 

 

Dr. Achille Lamesi

 

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